La formazione dell’insediamento altomedievale in Toscana. Dallo spessore dei numeri alla costruzione di modelli.

Marco VALENTI. Profesor Titular del Departamento de Arqueología e Historia del Arte de la Universidad de Siena (Italia).
17/2/05

1. Il cosiddetto “modello toscano”


Questo testo nasce in un fase di profonda riflessione dell’area senese di Archeologia Medievale sulla natura dell’insediamento rurale nell’altomedioevo. Era ancora in corso di elaborazione quando si è svolto il seminario di Poggibonsi, che ha rappresentato, dopo gli incontri di Nonantola e Gavi, una terza occasione di confronto; la sua stesura, conseguentemente, risente dell’ulteriore discussione.





Il tema in oggetto ha costituito occasione di frequenti interventi nel dibattito, esponendo quello che viene definito da altri gruppi di ricerca il “modello toscano”. Come è noto, dal punto di vista teorico, il “modello” schematizza una complessa rete di osservazioni desumibili dall’analisi dei dati raccolti. Il “fenomeno” analizzato viene riprodotto in categorie interpretative affinché possa essere tradotto in “meccanismi” agevolmente confrontabili con i risultati di altre ricerche. La costruzione di modelli che assolvano alle proprie funzioni richiede la misurabilità del record archeologico; in altre parole, far conoscere la strategia di ricerca intrapresa e dichiarare l’aspetto quantitativo delle basi dati. E’ ciò che faremo spesso nel corso di questa trattazione, legando le nostre ipotesi interpretative all’apporto ed al supporto dei numeri.

Ricordiamo schematicamente, prima di entrare nel merito, i punti principali sui quali poggia il “modello toscano”.

a – Decadenza del sistema delle ville e dell’organizzazione del popolamento rurale tra V e VI secolo con un’accentuazione progressiva della crisi.

b – Formazione del villaggio altomedievale intorno agli inizi del VII secolo, con il passaggio all’insediamento accentrato come forma di popolamento predominante.

c – Ruolo “debole” delle aristocrazie almeno sino alla metà del VII secolo che mostrano di assumere iniziative di maggior portata nell’organizzazione della campagna soprattutto dall’VIII secolo.

d – Trasformazione di molti villaggi in aziende che si realizza attraverso l’adattamento della curtis alle strutture del villaggio stesso nel corso del IX secolo.

e – Evoluzione dei villaggi in castelli al cui interno convivono nel X secolo sia la connotazione aziendale sia l’aspetto di dominio sul territorio.




Il record archeologico, utilizzato per elaborare questa ricostruzione, poggia su un vero e proprio vaglio al microscopio del territorio regionale attraverso ricognizioni ventennali, scavi di ville e scavi di villaggi composti da capanne spesso al di sotto dei castelli, oltre ad insediamenti minori (abitati in grotta e singole abitazioni di V-metà VI secolo), alcune chiese. Ad essi si sono affiancati in anni recenti la grande indagine archivistica sui castelli (che ha permesso di censire oltre 1500 centri), una sistematica lettura territoriale attraverso voli aerei e foto satellitari, il trattamento dei dati all’interno di grandi banche dati e piattaforme GIS, nonché un’estesa campionatura di reperti organici da tutti gli scavi sottoposta ad analisi radiocarboniche. Più in dettaglio, con un margine di imprecisione legato a quante indagini sono in corso ma delle quali sappiamo ancora poco o nulla, contiamo 49 scavi di castelli (17 condotti dall’Università di Siena), 3 insediamenti fortificati interpretabili come piccoli castra, 4 case sparse di periodo tardoantico, 5 grotte frequentate nella tarda antichità e nel primo alto medioevo, 18 ville, 12 chiese, 3 villaggi aperti con fasi tardoantiche ed altomedievali (Callemala, Luscignano, San Genesio) . Le ricognizioni territoriali si sono estese su tutta la regione con indagini nella più ampia diacronia; le province di Siena e Grosseto sinora hanno visto la battitura di 1979 kmq (quasi il 9% della Toscana) con un totale complessivo di 10.110 aree archeologiche individuate, mentre il censimento georeferenziato dell’edito sulle altre province, attualmente in progress, conta già 5.363 segnalazioni.

Questi sono i dati sui quali è fondato il cosiddetto “modello toscano”; di fatto una definizione limitativa dei significati che lo permeano e che, per conto nostro, ha la sola valenza di prodotto delle indagini realizzate in tale ambito territoriale. Quanto elaborato è infatti il modello interpretativo concernente le trasformazioni del popolamento tra tarda antichità ed altomedioevo scaturito da oltre un ventennio di indagini in Toscana ma che, per la strategia intrapresa ed i “numeri” alla sua base, si propone come termine di confronto nel panorama del dibattito.

Si collega direttamente alla discussione sullo spessore delle basi dei dati anche il tema più generale del rapporto “incompiuto” con la storiografia. L’alto medioevo è infatti un periodo pressoché scoperto dalle fonti scritte e su cui può fare maggior luce la documentazione materiale. La ricerca archeologica nell’ultimo trentennio, con il suo apporto di indagini programmate, sta finalmente producendo una vasta mole di dati che ampliano le prospettive interpretative sulla società rurale dell’altomedioevo, sinora ricostruita per l’età gota e longobarda su alcuni repertori di leggi, testi cronachistici, Storie, raccolte epistolari o vite di santi e soprattutto su carte private di IX-X secolo, interpretate anche retroattivamente, con il condizionamento di paradigmi storiografici consolidati ma troppo rigidi.

Uno studio di Bougard del 1995 permette di quantificare, anche limitandosi alla sola Toscana, il numero delle fonti scritte private disponibili (mentre i privilegi regi e le bolle pontificie sono estremamente esigui per quest’epoca). L’VIII secolo presenta 308 documenti, il IX secolo 859 documenti, il X secolo 1.104 documenti. Un totale di 2.207 pezzi: in apparenza una risorsa informativa di grande rilievo. Andando a vedere meglio, la maggior parte di essi proviene da Lucca (1.730 pari all’88,27%) e rappresenta un forte limite a modellizzazioni concernenti l’intera regione. Il ricorso alle fredde medie statistiche, inoltre, fornisce un’idea, seppur di massima, del loro potenziale informativo nella ricostruzione delle dinamiche socio-economiche e del popolamento. In Toscana (estesa 22.990 km) possiamo disporre mediamente di 1 documento per 74 kmq circa nell’VIII secolo, per 26,76 kmq nel IX secolo e per 22,10 kmq nel X secolo. I risultati sono ancor più sconfortanti per le altre regioni in cui la storiografia ha costruito delle modellizzazioni apparentemente solide.

L’analisi dei documenti scritti, da sola, non è quindi sufficiente per comprendere realmente come si sono formati i nuclei di popolamento altomedievale, come si configuravano ed in quale forma materiale si manifestarono i cambiamenti economici o sociali, se non quelli organizzativi, ai quali furono soggetti. Gli strumenti di cui si è dotata la ricerca archeologica permettono infatti di produrre modelli con un loro valore specifico, tale da far riflettere nuovamente sulla costruzione dei quadri storici del popolamento, riconsiderando con maggiori elementi di valutazione anche le fonti archivistiche disponibili. Ciò significa che i modelli archeologici vanno costruiti indipendentemente da quelli proposti dagli storici, senza flettere la lettura della fonte archeologica alla luce della fonte scritta.

In questo senso si deve giocare adesso la sfida principale dell’Archeologia Medievale, disciplina la nostra che non trova ancora una considerazione effettiva da parte della storiografia, indifferente al contributo portato dallo studio delle fonti materiali, «certamente in grado di “sfidare” quanto delineato sulla base delle mere fonti scritte» come è stato sottolineato da Francovich.


2. Tra IV e VI secolo: la crisi progressiva dei paesaggi romani.

Il campione di 1.979 kmq indagati nelle province di Siena e Grosseto mostra che la Toscana era caratterizzata da alti indici demografici sino al III secolo, ben esemplificati dalla presenza media di 1,27 siti per kmq. Le famiglie rurali iniziarono a diminuire dal IV secolo, mentre una marcata selezione avvenne tra la metà e la fine del V secolo (decremento del 498%), quando si allargarono le distanze tra le zone abitate attestandosi mediamente sul valore di 1 sito disposto su 4 kmq. L’occupazione della terra fu ancora più diradata, raggiungendo la media di 1 sito per 10 kmq, nel corso del VI secolo (decremento del 251% dal periodo precedente) con un’accentuazione progressiva del fenomeno nella seconda metà.

L’andamento dei rinvenimenti databili tra alto e basso Impero mostra quindi l’esistenza di un popolamento regionale ben radicato sul territorio che, nello spazio di circa 300 anni, discese verso valori mai toccati precedentemente. Un confronto di tipo “numerico”, per comprendere il crollo dei paesaggi romani, è possibile con un’area ben indagata come la Valle del Tevere, l’unica sinora paragonabile alla Toscana per dati quantitativi, strategia di ricerca ed interessi diacronici. Qui, dove le ricognizioni hanno una tradizione consolidata, sono riconoscibili gli stessi trend addirittura con un esito finale ancora più eclatante. Tra II secolo e metà III secolo sono presenti quasi 1.100 contesti, alla metà del V secolo si verifica un decremento del 242%, alla metà del VI secolo una riduzione del 243% e tra metà VI e tutto il VII secolo si osserva un’ulteriore diminuzione del 308% (in assoluto, dal periodo di maggiore demografia, del 1.816%).

La recessione del popolamento toscano a partire dal IV secolo, pur se di proporzioni sensibili, rappresentò una prima cesura nella rete insediativa e nella distribuzione della proprietà. Furono abbandonati sia alcuni centri di coordinamento sia abitati minori. Sopravvissero alla congiuntura negativa soprattutto villaggi e medio-grandi aziende, mentre i mezzi di produzione si accentrarono nelle mani di pochi soggetti.

Sono gli effetti della crisi che ebbe inizio nel III secolo. La débacle economica, che da essa in gran parte ebbe origine, maturò ulteriormente nel medio e lungo periodo; ne fecero le spese i settori sociali più deboli, con il fallimento di una vasta massa di piccoli agricoltori e la proletarizzazione degli imprenditori meno solidi. Il riequilibrio delle aziende si dovette coniugare a strategie produttive incentrate sullo sfruttamento più intenso di un minor numero di proprietà, seppur ingrandite, alla crescita delle aree incolte e vegetazionali. I latifondi andarono a rappresentare così delle isole che non ovviavano allo spopolamento delle campagne conseguente ai disastri finanziari ed alla disarticolazione sociale legata alla scomparsa della media e piccola proprietà. La stabilizzazione e la ricollocazione dei centri gestionali, se in alcune zone italiane produsse dei segni di ripresa esauritisi dopo pochi decenni, fu in realtà di basso profilo. Segnò l’inizio di una costante depressione che, nello spazio di cinque generazioni al massimo, stravolse completamente la geografia e la morfologia sociale delle campagne toscane.

Se la contrazione del popolamento rurale nel IV secolo può essere collegata ad un processo di riassetto dei rapporti di proprietà, l’esito critico alla fine del V secolo, quando il processo in corso raggiunse l’acme, segnò significativamente l’incapacità degli imprenditori rurali di reagire al deterioramento economico in atto, provocando la fine di quel sistema di gestione delle campagne che viene ben rappresentato dalla scomparsa dell’architettura delle ville. Ciò che avvenne non rappresentò una crisi di assestamento controbilanciata dalla definizione di ulteriori nuclei produttivi o gestionali finalizzati ad accrescere il reddito agrario in un’ottica di commercializzazione. Anziché innescare una fase di nuova crescita, basata su sistemi di gestione dei latifondi alternativi al passato, portò l’economia rurale verso una progressiva immobilizzazione; gli scambi si restrinsero in una dimensione più localistica e si accentuò l’orientamento della produzione agricola verso il consumo diretto. La ricognizione e tutti gli scavi di ville o di complessi tardo romani documentano la grande recessione in atto.

Fu investita l’intera regione; anche le estese aree costiere settentrionali ed i loro entroterra che, fino dall’età repubblicana, avevano beneficiato dell’impulso commerciale e produttivo dato da una serie di porti ed approdi (Portus Pisanus, Vada Volaterrana, Populonia e Falesia) e dal loro collegamento con la via Aurelia e la Aemilia. Questo florido territorio era capillamente occupato da grandi aziende rurali, dalla rete insediativa ad esse collegata e da mansiones; l’economia agricola si basava sulla cerealicultura, sulla viticoltura e sull’olivicoltura mentre abbondate legname era assicurato dai boschi del retroterra; venivano sfruttate le risorse minerarie, operavano centri manifatturieri di ceramica ed anfore vinarie e in prossimità delle lagune costiere esisteva un’industria del sale. Nonostante il perdurare delle rotte commerciali ed una crisi forse inizialmente meno grave, la fine del V secolo segnò una linea discriminatoria; due casi per tutti, San Vincenzino e Linguella dell’Isola d’Elba, ben illustrano i cambiamenti. La villa di San Vincenzino, di grandi dimensioni con caratteri di lusso e successive fasi di trasformazione per scopi produttivi, poco prima del definitivo abbandono nel V secolo, vide gran parte degli spazi in disuso ed un’occupazione limitata solo ad alcune sue parti. La villa di Linguella (Isola d’Elba), dopo il momento di massimo splendore nel III secolo, fu oggetto progressivamente di una destrutturazione fino all’abbandono avvenuto nel V secolo.

Alcuni recenti tentativi di leggere, nella presenza di chiese all’interno di complessi produttivi o di centri tardoromani, una vitalità economica dei possessores toscani molto più spinta di quanto sembra emergere dall’analisi complessiva del territorio regionale, non sono convincenti. Viene sopravvalutato il ruolo degli edifici religiosi, attribuendo loro una patente di centri catalizzatori e strumenti di controllo del popolamento che non sembrano avere avuto. In generale, pur di fronte all’eventualità di casi di evergetismo, la base del record archeologico odierno (ricognizioni comprendenti anche i dintorni di edifici religiosi ed i pochi scavi effettuati) suggerisce delle cautele interpretative.

Gli interrogativi aperti sono infatti ancora molti. Quante chiese furono fondate nell’età della transizione e quale portata reale ebbe il fenomeno? Era veramente diffusa la coincidenza con un complesso civile oppure si tratta di un’enfatizzazione dovuta alla natura delle indagini che relega le fondazioni ex novo, che pure ci furono, in secondo piano? Questa sovrapposizione, quando avvenne, fu sincronica o più spesso solo spaziale, andando così a rappresentare tutt’al più una cava dalla quale ricavare materiali per le nuove costruzioni?

L’impatto delle chiese come perni del popolamento per fini produttivi in realtà dovette essere debole, anche in relazione al pesante calo demografico tra IV e VI secolo ed ai ben noti processi di asservimento della maggior parte degli agricoltori andati in rovina: che bisogno c’era di permeare una fondazione privata di significati legati al controllo della massa produttiva, quando fu la stessa crisi economica a procurare in molti casi nuove braccia e nuove proprietà?

Un piccolo addensamento di popolazione nelle vicinanza di chiese, spesso riconosciuto da prospezioni in superficie, non detiene in realtà il valore proposto. Gli scavi toscani mostrano situazioni dubbie e non è mai stata constatata con chiarezza la contemporaneità dell’edificio religioso e di un contesto insediativo-economico. Per esempio la pieve di Sant’Ippolito ad Anniano nel Valdarno inferiore fu fondata sull’area di un complesso insediativo che nel IV secolo aveva già perso la sua funzione trasformandosi in mausoleo, cinquant’anni più tardi in una piccola chiesa ad aula rettangolare poi sostituita nel VI secolo da un edificio maggiormente esteso. E la fondazione di Pieve a Nievole alla fine del VI secolo, su un complesso romano già destinato ad area cimiteriale nel V secolo e con riusi a scopo abitativo, talvolta considerata un caso quasi emblematico, costituisce solo un’ipotesi sinora scarsamente comprovata.

Un esempio un po’ più tardo, di VI secolo, come il cosiddetto tesoro di Galognano nella Valdelsa è anch’esso insufficiente per riconoscere la fondazione privata di una chiesa finalizzata ad un maggior controllo delle masse produttive rurali. Si tratta di un corredo eucaristico composto da sei oggetti in argento (quattro calici, una patena ed un cucchiaio) che riportano i nomi dei donatori ed il toponimo della chiesa, rinvenuto casualmente cinquant’anni orsono effettuando lavori agricoli. Apparentemente i due donatori «HIMNIGILDA» e «SIVEGERNA», donne dal nome goto, potrebbero far pensare ad una fondazione privata, ma fu realmente così? Siamo sicuri che il corredo eucaristico rappresenti la prova effettiva della fondazione voluta da un’élite locale oppure non sia stata un’offerta? Le ricognizioni, nonostante le fantasiose ipotesi di Kurze, hanno inoltre mostrato l’assenza di insediamenti produttivi intorno all’edificio religioso tranne un paio di piccole abitazioni, mentre l’unico contesto significativo databile tra la metà del V e la metà del VI secolo è presente sulla collina di Poggibonsi, ad alcuni chilometri di distanza.

Non abbiamo quindi ancora prove tali da mettere in dubbio il modello con il quale dobbiamo invece confrontarci, quello di Violante per l’età tardoantica e gli inizi dell’alto medioevo: scarsa diffusione del processo di cristianizzazione, una rete di insediamenti religiosi di basso profilo e disarticolata. nella quale trovavano posto anche alcune fondazioni private di cui non conosciamo l’entità ma che non sembrano in numero rilevante.

Difficile, inoltre, trovare una giustificazione dei dati archeologici nei carteggi papali contenenti delle lamentele per fondazioni private di chiese ad opera di alcuni possessores della Tuscia. Questo toponimo, come è noto, non individuava solo l’attuale Toscana, bensì un’area molto più ampia comprendente anche l’Umbria e parte dell’alto Lazio (Procopio, forse sbagliando, estende la provincia sino a Genova). Perché quindi i privati citati nelle lettere di Gelasio I o di Gregorio Magno devono essere riconosciuti come toscani? Non potrebbero avere operato al di fuori degli attuali confini amministrativi della regione? Un’analisi attenta dell’Italia suburbicaria ha dimostrato come la parte più vivace e importante della provincia, ancora in età tardoantica, fu senza dubbio l’Umbria, che beneficiò nel rappresentare una tappa principale del collegamento Roma-Ravenna.

La Toscana era invece un territorio in stato di pesante recessione e le fonti archeologiche concordano senza dubbio con quelle documentarie. Dalla metà del IV secolo venne più volte esonerata dalla corresponsione degli oneri fiscali e nel 467 Sidonio Apollinare descriveva all’amico Heronius la «pestilens regio Tuscorum spiriti aeris venenatis flatibus inebriato et modo calores alternante, modo frigora» priva d’acqua potabile e infestata dalla malaria; ancora dalla metà del V secolo fu a più riprese ricordata insieme alla Aemilia come una delle provincie desolate e spopolate. Le stesse lettere papali descrivevano un periodo molto problematico. Gelasio I sottolineava la scarsa demografia, l’esiguità numerica e l’insicurezza delle fondazioni ecclesiatiche dipendenti dai vescovi; Gregorio Magno poneva invece l’accento sull’assenza di vescovi, preti e chierici, sul basso numero di chiese battesimali, sulla vacanza delle sedi vescovili, sulle numerose chiese in rovina, crollate o incendiate.

Più o meno sino all’età dioclezianea i contadini erano gravitati intorno a ville e complessi medio-grandi, oltre che in villaggi e singole abitazioni monofamiliari di agricoltori e dipendenti delle aziende maggiori; tutte le strutture si distribuivano variamente sul territorio ed in rapporto reciproco secondo le diverse aree geografiche e la caratteristiche gestionali della proprietà. Dopo che una serie diminuita di latifondi, in costante crisi o trasformazione, avevano rappresentato i centri economici vincenti in cui si raccoglieva ed operava una popolazione rurale calata di numero e spesso asservita, venne a maturazione una nuova tipologia insediativa molto semplificata.

Dall’età teodosiana, oltre al collasso dei complessi produttivi di medie e grandi dimensioni, si osserva che quasi tutti i villaggi e le abitazioni furono gradualmente abbandonati. Anche realtà insediative di basso livello, forse legate a quel processo di riequilibrio dei latifondi che abbiamo già tratteggiato, attestano storie di decadenza. Gronda di Luscignano nel carrarese, per esempio, era un piccolo villaggio probabilmente di capanne con fondazione in pezzame di pietra ed elevati in graticcio costituitosi nel IV secolo ed abbandonato nel VI secolo. Tendenzialmente alle stesse cronologie si data un ridotto agglomerato di capanne in legno con elevati ad intreccio intonacati in argilla individuato a Filattiera, tramite scavi esterni alla pieve di Santo Stefano, distrutto da un evento traumatico improvviso, forse un incendio.

Le famiglie rurali dettero scarsa continuità ai luoghi del vivere esistenti, spostandosi in nuove sedi, spesso poste su terreni già compresi nelle pertinenze di aziende latifondistiche ormai esauritesi. Costruirono ex novo case-poderi, in alcuni casi approntati anche su ville-grandi fattorie in abbandono od in coincidenza di piccoli centri degradati tipo vicus o mansio che si restrinsero; talvolta si scelse di vivere nelle grotte. La portata della rioccupazione-riconversione di spazi nell’area delle ville è comunque più limitata di quanto possa sembrare. La maggior parte dei complessi scavati presentano abbandoni definitivi ed il riuso non sembra emergere come l’elemento più distintivo delle nuove forme di abitato: la ricognizione suggerisce come, dalla media di una villa per poco più di 4,5 kmq tra I-III secolo ed un riuso in percentuale del 9,83%, si ebbe una rioccupazione ogni 47 kmq circa nell’intero VI secolo.

In questo panorama, anche lo stanziamento dei Goti dalla fine del V secolo non sembra avere avuto alcun peso sia in negativo sia in positivo: la recessione era già in corso da decenni e non si rintracciano evidenze di una rivitalizzazione della campagna. Trovarono territori in profonda crisi, nei quali più che tentare un’occupazione ramificata secondo i consolidati e ordinati meccanismi dell’hospitalitas come nelle zone a nord del Po, privilegiarono quei centri urbani a controllo dei passi appenninici quali Lucca, Pistoia, Fiesole, Arezzo, Chiusi e poche aree giudicate strategiche od ancora vitali (per esempio l’alta Valdelsa, ed il Valdarno costantemente importanti nodi viari; l’agro lucchese è invece attestato da fonti documentarie). Pur di fronte a ricognizioni territoriali non sistematiche, anche negli entroterra di tali città sembra confermarsi la tendenza ad una scarsa occupazione delle zone rurali: i dati per Chiusi ed Arezzo, dove le prospezioni non sono mancate, vanno in questa direzione.

La coincidenza tra il regno di Teodorico ed il raggiungimento del punto più critico nella campagna toscana della tarda antichità, quindi, pare essere stato più che altro casuale. Le trasformazioni a cui fu soggetto l’insediamento sono da collegare ad un permanente stato di riflusso ed agli aggravamenti causati da una serie di eventi negativi susseguitisi in poco tempo dalla seconda metà del V secolo; ai disastri economici si aggiunsero calamità naturali, pesanti carestie ed epidemie alle quali un sistema produttivo in recessione non poteva adeguatamente reagire.

Perché privilegiare allora un territorio in cui la rivitalizzazione sarebbe stata troppo impegnativa? Per rispondere adeguatamente è necessario domandarsi ulteriormente se la rete insediativa di poche case sparse e piccoli nuclei distribuiti sul territorio a maglie molto larghe, non rispecchi in realtà il perdurare degli assetti antichi: si adeguò la gestione della terra agli effetti provocati dalla congiuntura negativa? Potrebbe essere interpretato come una reazione alla crisi delle politiche di produzione intensive, impiantando un diverso modello economico basato sullo sfruttamento di minima dell’agricoltura e soprattutto della pastorizia e del saltus; quindi una scelta voluta da proprietari che lasciarono la campagna e cambiarono le proprie strategie? Questo tipo di trasformazione economica potrebbe per esempio rispecchiare la ben documentata inclusione della regione negli sconfinati latifondi del futuro sovrano goto Teodato, le cui proprietà erano amministrate da actores che rimettevano rendite in forma aurea?

Forse i possessores attuarono strategie di gestione fondiaria indiretta, ma dovette rappresentare un evento di scarso peso, se non occasionale e territorialmente limitato, all’interno di un lungo processo di depressione economica e prima di un ulteriore e catastrofico decremento demografico. La bassa qualità delle strutture abitative, il numero esiguo e la loro dislocazione spaziale (in media 1 sito per 10 kmq nel corso del VI secolo), sono invece la prova di un disegno economico inesistente e, se presenti, di imprenditori privi di forza reale.

In questo quadro sembra esaurirsi anche nella maggior parte dei casi il rapporto città-campagna; i contadini erano protesi soprattutto alla sopravvivenza ed all’autosostentamento mentre la commercializzazione dei prodotti in un mercato locale od urbano, peraltro fortemente impoveriti, non costituiva la loro principale preoccupazione.

Già la crisi di III e IV secolo aveva colpito tutti i nuclei urbani centro-meridionali e in parte il nord della regione, dove solo alcune città sembrano reggere: Lucca (rivitalizzata dall’ospitare fabbriche imperiali di armi), probabilmente Pisa, Pistoia, Firenze e Fiesole. Se nella prima fase di recessione decadono Vetulonia, Saturnia, Heba e Cosa, con il V ed il VI secolo vediamo aggiungersi (nonostante l’intervento goto per alcune di esse) Sovana, Roselle, Populonia, Chiusi, Cortona, Siena, Volterra, Arezzo e Luni. Al riguardo resta da comprendere il ruolo economico che potrebbero avere avuto ancora alcune parti della Toscana settentrionale ed in particolare le zone gravitanti direttamente intorno al bacino dell’Arno. Qui, per la posizione rivestita da Fiesole e Firenze (centri goti e poi bizantini) e la viabilità ad esse relazionata, dovevano essere sopravvissuti, se non sviluppatisi, alcuni market places al centro di superfici rurali più popolate. Siamo per il momento nel campo delle pure ipotesi, benchè insediamenti come San Genesio, nell’empolese, sembrano inserirsi lungo un itinerario commerciale ancora vivace almeno fino alla prima metà del VI secolo.

Il panorama complessivo, anche di fronte ad eventuali eccezioni locali, non sembra però discostarsi da una generale recessione. Siti ben scavati nella regione, che potrebbero rappresentare un confronto per il San Genesio tardoantico, mostrano infatti una storia di grande decadenza. Nell’area senese meridionale Pantani-Le Gore, forse la statio Manliana indicata dalla Tabula Peutingeriana, un centro con edifici in pietra databile fra I-II secolo, venne rioccupato parzialmente nel corso del V secolo impiantandovi strutture in materiali misti caratterizzate dalla presenza di ceramica d’imitazione africana. Dopo la distruzione del complesso ed una sua ristrutturazione, si sviluppò un abitato di dimensioni ridotte, con edifici in materiali deperibili e testimonianze di attività collegate all’allevamento bovino ed alla lavorazione del ferro. Prima dell’abbandono definitivo di metà VI secolo, messo in relazione agli effetti della guerra greco-gotica, era già frequentato occasionalmente. Anche un contesto come Vada Volaterrana (porto volterrano), posto in una zona di grande popolamento come l’area costiera livornese, pur resistendo un po’ più a lungo, subì lo stesso destino: un vasto settore dell’abitato edificato alla fine del I secolo venne progressivamente abbandonato dopo il V secolo e fu occupato da sepolture alla fine del VI secolo. Allo stesso modo Torretta Vecchia, un esteso complesso identificabile nella mansio Turrita segnalata dalla Tabula Peutingeriana, dopo ristrutturazioni che portarono ad una sua monumentalizzazione e dimensioni che raggiunsero i 3.000 mq in età costantiniana, era già in gran parte cadente tra la fine del IV secolo e gli inizi del V secolo; nella parte occidentale invece, l’edificio termale con pavimenti mosaicati venne destinato ad attività di fabbro e nella zona orientale furono impiantate delle abitazioni. L’intero abitato decadde definitivamente intorno alla metà del VI secolo.


3 – VII-VIII secolo; la formazione del villaggio

Lo sviluppo del nuovo tipo di popolamento si lega all’insorgere di un modello economico semplificato ed elementare, incentrato su un territorio regionale in massima parte impoverito e spopolato, sul quale andarono per di più a gravare il ventennio della guerra greco-gotica, che colpì con pesantezza il territorio toscano in particolare tra gli anni 538-542, lo stato di desolazione che ad essa seguì con l’insorgere di una delle più gravi pestilenze dell’alto medioevo (quella del 543, paragonata per letalità all’epidemia di metà XIV secolo).

La Toscana giustinianea sembra essere stata una regione in ginocchio, di aspetto miserevole anche in confronto al passato recente; la breve riconquista bizantina non riuscì o non ebbe il tempo di attuare delle politiche di risanamento e di reintegrare un ceto di possessores indebolito, i cui esponenti erano diminuiti di numero dalla fine del V secolo e quasi scomparsi nel conflitto. Le strutture dell’insediamento (case sparse, piccoli centri degradati e grotte) sembrano frequentate da un esiguo numero di persone che, con il procedere della recessione ed il deterioramento del sistema produttivo, si erano ritrovate prive di un effettivo controllo. Non ricevevano più direttive da un agente o da un proprietario ed erano saltati alcuni cardini sui quali si reggeva la fiscalità tardoantica; l’assenza di figure che conoscevano la dislocazione delle famiglie rurali impediva l’eventuale riscossione di tasse nel periodo del caos.

Nella seconda metà del VI secolo, forse sino agli inizi del VII secolo, più o meno tutte le sedi di popolamento furono abbandonate. Questo evento si coniuga al crollo definitivo dei paesaggi tardoromani ed alla conquista longobarda. Ma la decadenza della rete insediativa prospetta veramente una definitiva desertazione della campagna? Dove andarono a finire le famiglie che, seppur in basso numero, vivevano ancora in ambito rurale? Attribuendo un valore medio di 5 componenti per nucleo possiamo ipotizzare un ammontare di almeno 11.500-12.000 persone delle quali, apparentemente, si perdono le tracce.

Alcune fonti parlano di estesi movimenti migratori dalla Tuscia al Piceno. L’abbandono dei poderi o di quei centri che erano sopravvissuti non deve però essere ricondotto solo ad un fenomeno di spostamento della popolazione, od alla conseguenza del conflitto ventennale, ai durissimi anni bizantini, allo stato di guerra più o meno latente che si protrasse, oppure ai guasti provocati dall’azione dei Longobardi.

Gli scavi nei castelli rivelano che alcuni gruppi di contadini non abbandonarono la regione e fecero sicuramente delle scelte di tipo diverso. Se dobbiamo pensare ad una percentuale non quantificabile di persone che possono essere scomparse od emigrate, la popolazione restante abbandonò invece le proprie abitazioni per raccogliersi in forme comunitarie. Le ricognizioni territoriali, inoltre, presentano indizi indiretti a favore di questa ipotesi. Su aree di poche decine di ettari sono ampiamente diffuse le coincidenze tra abitazioni o piccoli centri abbandonati nel corso del VI secolo e castelli, al di sotto dei quali potrebbero trovarsi depositi relativi a villaggi altomedievali. Come è emerso ormai con chiarezza da anni, la signoria territoriale pose le proprie basi su una serie di centri formatisi in questi secoli e lo scavo di castelli ha rappresentato fino ad oggi la strategia di ricerca più redditizia per la comprensione dei caratteri del popolamento altomedievale.

Il processo di costituzione della nuova rete insediativa sembra avere inizio più o meno intorno agli anni della guerra greco-gotica e proseguire nei primi decenni della conquista longobarda. Sul suo sviluppo dovettero interagire l’instabilità della fase storica in corso e la necessità di governare meglio, tramite la forza collettiva, una terra deteriorata e riconquistata dalla natura. Una massa di contadini-pastori liberi di prendere decisioni e di spostamento, per motivi di convenienza pratica, si raccolse in villaggi. Trovarono uno spazio di iniziativa, all’incirca quasi un cinquantennio forse anche meno, dopo la scomparsa o la rovina dei latifondisti toscani e prima dello sviluppo o della stabilizzazione di una nuova classe di possessores in età longobarda. In tal senso deve essere intesa la vecchia e provocatoria affermazione di Wickham sull’età dell’oro dei contadini che tante polemiche ha provocato.

Quattro casi di scavo chiariscono quali furono le modalità di formazione dei villaggi: vennero privilegiate soprattutto le aree di sommità (Scarlino, Poggibonsi, Donoratico) e talvolta gli spazi pianeggianti (San Genesio), ripercorrendo dei siti che più o meno stabilmente erano stati oggetto di frequentazione in età tardoantica e, come sembra, abbandonati da poco tempo.

A Scarlino, nel grossetano, il primo impianto di capanne alla metà del VI-VII secolo avvenne su depositi, seppur alterati e quindi non decifrabili nella loro consistenza, databili fra IV-V secolo.

A Poggibonsi, nel senese, fra metà V e VI secolo, era in vita un nucleo di carattere agricolo ed allevatizio, del quale sinora sono state riconosciute alcune componenti: cinque abitazioni a pianta rettangolare, con muri in terra fondati su zoccoli in pietra e tetto in laterizi ad uno spiovente. Le case avevano dimensioni di circa 30 mq, si dislocavano intorno ad una profonda e larga calcara, erano affiancate da alcune infrastrutture (un deposito per acqua in mattoni, una zona per la macellazione di animali) e da un tratto di campo arato od un ampio orto fossilizzato.

Fanno ipotizzare uno spazio organizzato che potrebbe essere stato parte di un complesso produttivo tipo un’azienda di età gota andata in graduale declino o più verosimilmente abbandonata. Nella seconda metà-fine del VI secolo, assistiamo infatti ad un cambiamento radicale degli spazi insediati. Il complesso tardoantico fu sostituito da un insediamento di capanne i cui perimetrali furono impiantati sui crolli dei tetti e sui disfacimenti dei muri delle case di terra.

Donoratico, nel livornese, sta mostrando una frequentazione della collina molto estesa in età tardo repubblicana e tardoantica ancora da chiarire nella sua evoluzione ma che, allo stato attuale delle ricerche, sembra soppiantata da un agglomerato di capanne costituitosi dopo una fase di abbandono.

San Genesio, un notevole villaggio mai trasformatosi in castello, indagato da pochi anni ma con risultati già indicativi sull’evoluzione del popolamento, presenta la costruzione di capanne ascrivibili tra fine VI e VII secolo su spazi d’intensa frequentazione tardoantica, probabilmente un grande centro (mansio? vicus? villa?); le fasi di passaggio all’alto medioevo devono essere ancora comprese ma, come a Poggibonsi, la successione delle stratigrafie indizia per il momento un abbandono ed una rioccupazione dopo pochi decenni.

La scelta di ripercorrere dei luoghi una volta insediati e decaduti potrebbe trarre in inganno, leggendo nella sovrapposizione con gli agglomerati di capanne l’esistenza di alcuni possessores ancora attivi nel riordinare i resti delle loro proprietà. Questa soluzione ci lascia molto dubbiosi, sia sulla base di indicatori archeologici sia antropologici sia per le vicende generali della Toscana fino agli inizi del VII secolo.

Le fasi d’età longobarda di Scarlino e Poggibonsi per esempio attestano la presenza di una popolazione priva di differenze sociali ed economiche al suo interno; le capanne risultano per lo più tutte uguali e non si notano gruppi o individui segnalati da un maggior grado di benessere o per articolazione e topografia delle proprie abitazioni. Le attività economiche, dopo un’iniziale specializzazione nell’allevamento degli animali, videro un progressivo sviluppo dell’agricoltura. Non sono riconoscibili inoltre strutture che possano far pensare alla raccolta di quote destinate a proprietari residenti altrove o indizi della presenza di un actor. Questi ultimi avrebbero potuto vivere nelle città oppure essere proprietari consumatori itineranti tra i diversi villaggi, ma quali elementi archeologici abbiamo per sostenerlo? Anche propendendo per altre soluzioni, come ipotizzare i luoghi di residenza dei proprietari nei castra (ereditati dalla guerra greco-gotica poi rioccupati da contingenti longobardi), non troviamo ugualmente una spiegazione attendibile; gli scavi e le analisi topografiche mostrano pochi centri di piccole dimensioni ed il cui impatto sulla popolazione rurale resta tutto da dimostrare.

Il villaggio si dovette formare seguendo la logica di un’esistenza meno incerta e vennero privilegiati quei luoghi in cui lo spazio fisico, seppur decaduto, era già predisposto per la costruzione di nuove abitazioni e per recuperare con pochi sforzi delle superfici agricole caratterizzate da processi di rimboschimento appena agli inizi. L’accentramento dei contadini consentiva di raggiungere «una ‘massa biologica’ di consistenza adeguata, vale a dire un numero di abitanti che giungesse almeno alla soglia del centinaio di individui, al di sotto della quale difficilmente la solidarietà e la sussidiarietà comunitaria potevano raggiungere quella massa critica utile per ottenere una produttività agricola efficace per la sopravvivenza».

Le origini del popolamento comunitario altomedievale sono quindi da riconoscere soprattutto nella scelta spontanea delle famiglie rurali di vivere raccolte; tendenzialmente i contesti indagati nelle campagne toscane furono centri di coagulo dei contadini per meglio organizzare il territorio agrario: un insediamento accentrato permette più facilmente di attuare forme di sfruttamento estensive, di alternare periodicamente le colture e di sfruttare al meglio attrezzi agricoli complessi. Mentre risulta molto difficile riconoscere l’azione dei Longobardi, possibile invece in alcuni casi settentrionali, nella costituzione di insediamenti stabili sia come semplice adesione al suolo sia come controllo di un gruppo di famiglie alle quali viene assegnata un’area per renderla produttiva.

L’assenza di gerarchie interne ai villaggi e l’impossibilità di riscontrare chiari segni di possessores che governavano i processi di ricolonizzazione della campagna può trovare agganci ulteriori alle vicissitudini politico-territoriali. La regione visse anni confusi, in uno stato di conflitto permanente in cui si alternavano conquiste, arretramenti di confine e riconquiste; solo tra la fine del VI ed il VII secolo fu definitivamente assoggettata, ricevendo poi in breve un suo assetto istituzionale ed una morfologia amministrativa. La presenza longobarda dovette essere numericamente limitata ed all’inizio instabile. Per ragioni soprattutto militari vennero privilegiati i nuclei urbani come mostra anche la scarsa attestazione di sepolture di prima fase sul territorio.

La riorganizzazione delle basi economiche iniziò quindi come un processo lento, innescatosi già prima del nuovo dominio, collateralmente ad un assetto istituzionale in definizione e con interventi di basso profilo di aristocrazie rurali nascenti che dovevano ancora delinearsi nella propria conformazione. L’unica spia archeologica pervenutaci, di una possibile serie di vincoli a cui la popolazione doveva sottostare, sembra riconoscibile in alcuni casi di scavo nell’assenza di selvaggina dalla dieta quotidiana delle persone; la mancanza di ossa pertinenti ad animali selvatici dai depositi di queste fasi potrebbe indicare spazi il cui uso per attività venatorie era vietato o riservato ad altri soggetti. Ma da sola non autorizza ad ipotizzare una strategia economica decisa da proprietari o chi sa quali iniziative che non si pongano al di là del semplice controllo per autoconsumo sviluppatosi in breve tempo. Potrebbe essere data anche una spiegazione di diverso tipo all’apparente divieto di caccia dei contadini: i terreni boschivi che circondavano il villaggio e lo spazio agricolo ad esso legato dovevano essere di carattere fiscale e quindi pertinenti alla corona. Ma, per quanto suggestiva, non trova altri e necessari appigli archeologici; solo il caso di Poggibonsi sembrerebbe fornire prove maggiormente indiziarie, a condizione che le ipotesi sulla fondazione della vicinissima abbazia di Marturi su terreni statali in età longobarda si confermassero.

L’archeologia dei villaggi toscani mostra chiaramente come la formazione e la stabilizzazione di ricchezze rurali private si siano andate definendo più avanti, tra la metà del VII e l’VIII secolo; ne sono testimonianze le trasformazioni urbanistiche dei centri esistenti e la fondazione di nuovi insediamenti. Gli scavi registrano dei cambiamenti sostanziali: i nuclei di popolamento iniziarono ad evolvere in centri di gestione del lavoro, la cui natura è comprensibile con la comparsa di strutture di coordinamento della produzione assenti nelle prime fasi. Il loro riconoscimento passa attraverso la valutazione topografica e funzionale di contesti costituiti da gruppi di strutture ben riconoscibili e che compongono delle anomalie nell’uniformità dell’insediamento; si manifestano come un blocco di edifici talvolta difesi e raccolti intorno ad uno spazio aperto, tra i quali sono identificabili locali destinati all’accumulo ed alla conservazione di derrate alimentari. Nei centri di nuova fondazione questo tipo di articolazione topografica e di organizzazione era già impostata all’origine.

Un villaggio imperniato quasi esclusivamente sull’agricoltura e dove la presenza di due zone distinte attesta gerarchizzazione, è Montarrenti. Tra la metà del VII e l’VIII secolo, decenni nei quali l’insediamento si formò, esisteva una divisione netta fra gli spazi sommitali ed i versanti. Se l’intera comunità risultava difesa da un’estesa palizzata, la parte più innalzata venne ulteriormente rinforzata, e distinta fisicamente dal resto delle superfici insediate, attraverso una seconda cortina.

Nel villaggio di Poggibonsi la popolazione continuava ad essere economicamente uniforme; erano presenti capanne abitative, stalle od altri ricoveri per animali, spazi aperti destinati allo svolgimento di attività rurali ed artigianali. Intorno alla metà dell’VIII secolo le strutture già esistenti furono affiancate da un nucleo composto da sei edifici raccolti intorno ad una piccola corte, due dei quali con destinazione di magazzino-rimessa. La costruzione di questo complesso (le cui prime tracce sono presenti agli inizi del secolo in forma già evidente) è interpretabile come l’inserimento di un proprietario o di un suo actor nel villaggio; rappresenta non solo l’indizio di gerarchizzazione sociale, ma anche un cambiamento ed un maggiore controllo diretto sulla produzione: accanto all’allevamento ed alla pastorizia andava ad assumere un peso maggiore l’agricoltura.

Un nuovo gruppo di possessores iniziò quindi ad affermarsi almeno sino dagli anni del regno di Rotari, raggiungendo nello spazio di alcuni decenni una dimensione più matura. Il loro radicamento nelle campagne, benché non dovessero contare ancora su patrimoni cospicui, può essere avvenuto attraverso due modi: dinamiche interne alle comunità rurali e l’apporto di longobardi che avevano scelto di risiedere sul territorio. Nell’insieme rappresentavano dei nuovi proprietari fondiari, dalle origini etniche promiscue, definiti dalle fonti scritte come arimanni, componenti dell’exercitus e longobardi di diritto. Un’area in particolare, il lago Prile, sembra mostrare l’esistenza di exercitales o negotiantes che vivevano sul territorio, dei quali non sono stati individuati i centri di residenza bensì evidenze di tipo funerario; si tratta di singole tombe e sepolcreti distribuiti a raggiera intorno al lago salato, databili soprattutto tra metà VII e VIII secolo. Alle stesse cronologie sembrano rinviare le poche evidenze di sepolture indicate come longobarde provenienti dalla Val di Sieve, relazionate però finora alla rete dei castra. Al di là dei dubbi “etnici” che possono ingenerare le linee del dibattito sui fenomeni di acculturazione, queste presenze rientrano nel quadro dello sviluppo di un nuovo ceto di proprietari terrieri che abbiamo tratteggiato.

Ad essi si affiancarono famiglie contadine proprietarie della terra che coltivavano, comparse contemporaneamente alla costituzione dei villaggi, la cui origini potrebbe ipoteticamente rintracciarsi nei decenni di crisi istituzionale e dei latifondisti. Inoltre un’alta aristocrazia promossa dalla corona, insediata per gruppi parentali nei centri di potere laico ed episcopale cittadini, che aderì in breve con una vasta base economica al paesaggio rurale, almeno dalla reggenza di Ariperto II. Troviamo attestazione della loro presenza nei documenti scritti, ma sono assenti chiare tracce materiali sul territorio; tale vuoto archeologico sembra prospettare il controllo in forma indiretta del proprio patrimonio e individua nella città la loro sede di residenza stabile. In Toscana non sono stati rinvenuti contesti archeologici come quelli dell’Italia settentrionale che provano la territorializzazione di un ceto di fideles del re, divenendo esponenti di spicco della nuova classe dei proprietari terrieri.

Nell’VIII secolo la campagna stava quindi vivendo un processo di crescita; era caratterizzata da rapporti di proprietà più o meno stabilizzati e da una società rurale che tendeva nel tempo a farsi sempre più differenziata socialmente con la crescita di una massa anonima indicata dalle leggi come pauperes o rustici. Quantificare approssimativamente il numero degli insediamenti presenti nella regione è possibile solo per difetto, considerando che il 62% dei castelli scavati in Toscana fu fondato su insediamenti comunitari altomedievali preesistenti; rapportando questa percentuale ai 1.554 castelli toscani attestati dalle fonti scritte sono ipotizzabili circa 960 centri, ai quali si devono aggiungere quei villaggi che non sono mai divenuti castelli o che non hanno lasciato tracce archivistiche. Venne quindi raggiunta la presenza di almeno un villaggio per circa 24 kmq, con una grande crescita in confronto al VI secolo per il quale, come abbiamo osservato, si calcola una famiglia per 10 kmq: la popolazione rurale poteva esser passata da 11.500-12.000 unità ad un numero, seppur tarato verso il basso, di 100.000-150.000 persone.

L’impatto della nuova organizzazione economica aveva condotto verso un’espansione del popolamento e la fondazione dei villaggi dovette spesso dipendere dai possessores più solidi, come sembrano indicare gli scavi di Montarrenti, Miranduolo, Rocchette Pannocchieschi, Montemassi, forse anche Rocca di Campiglia, Cugnano e Staggia. In questi centri, così come negli altri casi di scavo, l’edificio religioso era assente. La soddisfazione dei bisogni spirituali non sembra aver rappresentato una delle priorità delle famiglie rurali, la cui prima preoccupazione continuava invece ad essere una produttività agricola necessaria per la sopravvivenza. Le chiese, che iniziarono a fare la loro comparsa all’interno dei nuclei insediativi dall’età carolingia (Scarlino e Donoratico) non furono dunque volani nella nascita dei villaggi.

San Genesio rappresenta al riguardo un esempio già indicativo; sviluppatosi sotto forma di vicus, era un villaggio contadino che rappresentava, nell’ambito di un’accentuata ruralizzazione delle strutture politico-amministrative, il punto di coagulo dei vincoli di solidarietà fra i suoi abitanti ed in grado di configurarsi con una certa autonomia amministrativa. Non sembra essere sorto intorno ad una chiesa bensì il contrario: l’edificio religioso, di periodo franco, si inserì all’interno di un agglomerato preesistente come indicherebbe la presenza di capanne al di sotto delle sue fondazioni.

E’ realistico pensare che alcuni edifici religiosi esistenti già in età tardoantica (anche se la domanda resta sempre quanti e quali furono?) e soprattutto quelli probabilmente fondati fra la metà del VII e la metà dell’VIII secolo, periodo in cui si assiste in generale ad una proliferazione di chiese, ospedali e monasteri dovuti all’iniziativa laica, servissero una serie di insediamenti posti nei loro dintorni. Non fu quindi la rete del popolamento a modellarsi in relazione alle chiese esistenti. Al riguardo, non deve essere per esempio sopravvalutata nella sua portata per la storia dell’insediamento altomedievale la ben nota disputa tra i vescovi di Siena e di Arezzo sulle chiese battesimali poste nella fascia di confine tra le due città, cercando di trarne indicazioni retroattive sulla formazione dei villaggi e sulla centralità degli edifici ecclesiastici. Evento che testimonia soprattutto quella vasta mole di relazioni e compenetrazioni tra laici di medio e di alto livello sociale ed istituzioni religiose che, al di là delle motivazioni spirituali esistenti, rappresentarono soprattutto occasioni economiche e di affermazione-consolidamento familiare.


4 – IX-X secolo; la trasformazione del villaggio

I processi formativi della proprietà terriera, che abbiamo cercato di seguire dal VII secolo, raggiunsero punti di arrivo significativi contemporaneamente alla definizione di un nuovo ceto di possessores, alla crescita del popolamento ed alla diffusione dei villaggi. Il consolidamento delle aristocrazie rurali fu però un processo di più lunga gestazione; è tra VIII e IX secolo che le élite stabilizzarono i propri patrimoni affermandosi definitivamente ed i contadini, attraverso vie differenti che sono state tratteggiate a sufficienza dalla storiografia, dovettero entrare per la maggior parte nella dipendenza di grandi proprietari.

Se nella matura età longobarda riusciamo a cogliere archeologicamente i primi segni di un’evoluzione urbanistica dei villaggi, che deve essere collegata allo sviluppo di forme di controllo della produzione, con l’età carolingia avvenne un cambiamento significativo. Gli scavi mostrano l’inizio di una stagione di rinnovamento urbanistico e di riprogettazione, segni di una più marcata capacità di organizzare la società locale; i cambiamenti non riguardarono gli aspetti qualitativi delle abitazioni o della vita lavorativa. Le tracce sono riconoscibili soprattutto nella topografia dei centri di popolamento, distinguendo lo spazio del potere economico dagli spazi occupati dalla massa dei poderi, nella presenza tangibile di un dominus o di un suo actor, da opere che i contadini erano tenuti a realizzare, dal tipo di accesso alle derrate alimentari e dalla gestione dei mezzi di produzione.

In questo periodo i nuclei di popolamento non differirono molto da aziende; con l’introduzione del latifondo di modello franco si può ragionevolmente affermare che ambedue le connotazioni convissero, influenzandosi reciprocamente. Quanto emerge dal modello basato sulla valutazione degli indicatori materiali sembra confermare le elaborazioni di Conti sulle campagne del contado fiorentino nell’età precomunale. Quarant’anni orsono aveva infatti ipotizzato, contrariamente all’opinione più o meno comune sulla generale disposizione dei contadini in case massaricie isolate, e quindi curtes come quadri insediativi polverizzati, che l’organizzazione socio-insediativa agraria si strutturò in villaggi ben agglomerati e terroirs gestiti collettivamente. L’impressione si rafforza ancor di più con il dato proveniente dall’archeologia del territorio: al di là dei falsi problemi metodologici sulla visibilità dei contesti altomedievali, evidenzia che l’insediamento sparso ebbe un ruolo molto marginale se non nullo.

La curtis si modellò su un sistema di centri rurali già esistenti e l’evoluzione strutturale connessa al suo impianto non creò effetti traumatici dal punto di vista gestionale. L’applicazione di un maturo sistema curtense fu facilitata dai processi avviati ed interessò dei villaggi già predisposti dalle scelte economiche dei proprietari terrieri stabilizzatisi definitivamente nel corso dell’VIII secolo.

Dal punto di vista urbanistico, si osserva che gli spazi del potere vennero distinti dal resto del villaggio quasi sempre attraverso una fortificazione. Rappresentavano un complesso molto organizzato, difeso e separato dalle case dei contadini dipendenti o liberi che vivevano nell’insediamento, posto sulla sommità del rilievo; emblematici in tal senso risultano i casi delle aree chiuse da palizzate a Montarrenti (poi sostituite da un muro) ed a Miranduolo; lo spazio cinto da mura di Scarlino se un massaricio si trovava sui versanti non scavati; la divisione interna di Donoratico. A Poggibonsi, invece, era probabilmente collocato al centro dell’insediamento ma lo scavo deve ancora continuare. L’aspetto del villaggio cambiò anche attraverso la costruzione di edifici (magazzini e granai) che mostrano la presenza di una figura padronale in grado di razionalizzare prelievi sulla produzione agricola (Montarrenti, Poggibonsi, Miranduolo, probabilmente Scarlino), di accentrare le strutture per la fabbricazione di beni (forge e fornaci: Poggibonsi, Scarlino, probabilmente Donoratico e Rocchette) o per il trattamento dei prodotti alimentari (forni per essiccazione dei cereali, strutture per la macinatura, edifici per la macellazione e la lavorazione della carne: Montarrenti, Poggibonsi, Donoratico), di esigere opere dai propri contadini (erezioni di palizzate o di muri, escavazione di fossati: Montarrenti, Miranduolo, forse Scarlino) o di assoldare maestranze specializzate per specifici interventi (la costruzione della chiesa di Scarlino e forse quella di Donoratico).

In definitiva è possibile descrivere la casa dominica come un’area residenziale articolata in un edificio destinato al padrone od al suo agente (la longhouse di Poggibonsi, le grandi capanne di Scarlino e Miranduolo), contornata da magazzini e granai, aie, stalle e recinti per gli animali, da strutture funzionali alla produzione di manufatti artigianali od alla lavorazione ed al trattamento dei prodotti agricoli. Si rilevano inoltre casi di dominico e massaricio contigui (Montarrenti, probabilmente Scarlino, Miranduolo e Donoratico) e casi di massaricio disgiunto dal centro (forse a Poggibonsi e soprattutto a Campiglia dove il piccolo villaggio pare aver fatto parte di un massaricio).

La ceramica non sembra rappresentare un fossile decisivo per comprendere economia e caratteristiche sociali dei centri di popolamento. Agli elementi urbanistici si affiancano con maggiore peso specifico i dati provenienti dallo studio delle ossa animali e dei resti archeobotanici. Oltre a fare luce sulle diverse strategie economiche in atto nella diacronia e sui cambiamenti ai quali andarono soggette, indiziano l’esistenza di rapporti di tipo gerarchico ed economico, le loro caratteristiche, gli obblighi e le limitazioni.

Nel villaggio di Montarrenti la palizzata che cingeva gli spazi di sommità fu sostituita da una cortina muraria ed al suo interno, alcune capanne vennero soppiantate da strutture che attestano il controllo della produzione, la riscossione di quote canonarie, il loro trattamento e conservazione. Tali spazi erano divenuti un nucleo insediativo e di raccolta, dotato di strutture difensive a controllo della “ricchezza” mentre i versanti del rilievo e le capanne qui edificate possono essere invece riconosciute come la zona massaricia dell’azienda. La distribuzione dei reperti osteologici mostra una concentrazione pressochè totale nell’area di sommità, indicando che nella casa dominica si gestissero quasi interamente gli animali presenti nel villaggio e solo poche famiglie del massaricio potevano disporne. Allo stesso modo la presenza esclusiva di selvaggina su tali spazi sembra indicare nel bosco una risorsa riservato al dominico.

Miranduolo, con la trasformazione in azienda, lascia ipotizzare che i profondi cambiamenti topografici furono realizzati attraverso opere prestate dai contadini: scavarono un sistema di fossati a difesa della zona sommitale ed eressero una poderosa palizzata. La parte sommitale deve essere letta come una casa dominica di piccola estensione luogo di residenza del proprietario o di un suo agente e di raccolta. Era una fattoria composta da pochissime abitazioni contornate da edifici per l’accumulo di scorte alimentari. Le considerevoli restituzioni archeobotaniche attestano un’economia agricola tesa a impiegare intensivamente tutto il territorio di catchment tramite campi seminati a cereali (grano duro, segale, orzo) e legumi (favino e cicerchia), coltivando vite, olivo, peschi e noci, sfruttando le risorse di boschi (castagne e ghiande) e di probabili piantumazioni nel loro insieme composti da querce, castagni, carpini, eriche, aceri, olmi, frassini e pioppi. Il ruolo dell’allevamento non è al momento misurabile, benchè ampie quantità di prodotti finalizzati al sostentamento degli animali rinvenute nei magazzini sembrerebbero collegare in qualche modo la loro gestione al dominico.

A Poggibonsi, il centro della curtis era articolato nella residenza padronale, in strutture artigianali ed ausiliarie, in abitazioni più piccole che sembrano riconducibili a servi o dipendenti operanti nel dominico con mansioni collegate all’allevamento degli animali, alla produzione di generi alimentari e di strumenti di lavoro. La specializzazione nell’allevamento di caprovini, la presenza di bovini macellati in età avanzata, fanno pensare che le superfici agricole del dominico venissero gestite soprattutto tramite corvées concedendo l’impiego dei propri animali. L’esistenza di strutture di accumulo individua anche per questo villaggio l’immagazzinamento di quote canonarie. L’alimentazione è poi uno degli indicatori più evidenti a conferma della presenza di una differenziazione sociale ed interessante è il tipo di distribuzione della carne che effettua il dominus tra i suoi diretti dipendenti con un ulteriore collegamento fra qualità della carne e diverso ruolo o posizione rivestita. La famiglia dominante consumava molta carne di prima scelta e di tipo diversificato, i dipendenti più stretti accedevano a tagli di seconda scelta, il resto della popolazione a tagli di terza scelta.

Non tutti i centri dovettero avere successo; le ricognizioni hanno individuato alcune emergenze riconducibili a villaggi che furono frequentati per minor tempo. Per esempio nei monti del Chianti senese in località Istine una sommità collinare a dominio del torrente Pesa e di forma allungata e tabulata era occupata da un insediamento di capanne utilizzate tra IX e XI secolo. Alle stesse cronologie risalgono altri contesti, come quelli in località Montosi e Poggio Castellare caratterizzati anche dalla presenza di piccoli recinti in pietra. Mentre nel grossetano, in località Podere Serratone, una vasta concentrazione di materiali di superficie è stata interpretata come un insediamento accentrato vissuto tra VII e IX secolo; nelle stesse cronologie si colloca l’emergenza più piccola individuata a Casa Andreoni presso Alberese; o il sito di Poggio Sant’Andrea nell’entroterra di Vetulonia anch’esso caratterizzato da un recinto in pietra e databile tra IX-XI secolo.

Infine deve essere valutato più approfonditamente il significato dei casi come San Genesio, il cui sviluppo in centro importante e ben popolato potrebbe ricordare gli esempi lombardi tipo Castelseprio e da vicino quel Marturi dove Matilde di Canossa teneva talvolta udienza, del quale abbiamo solo testimonianza documentaria ed un villaggio di lunga frequentazione abbandonato nel corso del X secolo posto a poche centinaia di metri: Poggibonsi. Quanti furono? Quali dinamiche sociali interne ebbero nella diacronia? Dovettero il loro successo al fatto di rappresentare dei luoghi di scambio e di mercato lungo viabilità vive? Erano realmente dotati di un’autonomia amministrativa oppure dominati da un’aristocrazia? Rappresentarono, ad un certo punto della loro vita, dei centri “antagonisti” alla città? Le informazioni che in un futuro potranno prodursi, non cambieranno comunque la realtà di una regione che nell’alto medioevo fu caratterizzata dalla presenza probabile di un migliaio circa di villaggi la maggior parte dei quali, dopo almeno due fasi di grande cambiamento, venne trasformata in castelli.


5 – Conclusioni

Concludendo, si può affermare che la società rurale dell’alto medioevo toscano si organizzò sull’insediamento accentrato ed in una rete di economie locali. Fu la forma di popolamento egemone e nelle sue trasformazioni urbanistiche e strutturali, così come sono mostrate dall’archeologia, si leggono le dinamiche di rapporti patrimoniali più che politico-istituzionale. Il villaggio può essere paragonato ad un palcoscenico sul quale recitarono le forze produttive della campagna tra la metà del VI ed il X secolo e dove sono riconoscibili le manifestazioni materiali dei rapporti socio-economici in corso, la formazione delle élite rurali ed il loro lungo e faticoso consolidamento. Indagare la sua evoluzione significa perseguire le modalità di affermazione dei poteri locali attraverso un’inchiesta sul ceto produttivo contadino; di conseguenza le trasformazioni verificatesi nell’organizzazione della terra.

Dopo il crollo dei paesaggi tardoromani e l’esaurimento delle forme di gestione che a questi si legavano, l’insediamento comunitario segnò prepotentemente la storia del paesaggio agrario in un sistema di localizzazione e semplificazione economica e di strutture statali deboli. Le vicende dei villaggi mostrano una crescita demografica lenta sino al VII secolo ed una maggiore espansione delle aree popolate, affiancata dalla riorganizzazione e dalla stabilizzazione dei centri insediativi, soprattutto dall’VIII secolo. Questo cambiamento riflette un’intensificazione della produzione agricola e la
trasformazione dell’allevamento; preluse inoltre ad una mutazione significativa della struttura economica e sociale delle comunità rurali quando, con la costituzione delle curtes, si formarono quelle basi patrimoniali egemoniche ed una netta gerarchizzazione della società rurale, sulle quali aderì la signoria territoriale.


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